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Razzismo al Politecnico di Milano: due commenti

Qualche giorno fa una professoressa del Politecnico di Milano è stata ripresa mentre durante una lezione in remoto, ad una ragionevole richiesta degli studenti, risponde con una frase evidentemente fuori luogo e subito etichettata come razzista. La reazione dell’opinione pubblica studentesca è stata tanto prevedibile quanto sconcertante. Permettetemi però di far sentire la voce di un altro studente universitario, la mia. Una voce spesso soffocata dallo stesso ostracismo di cui sopra abbiamo un esempio.

Non vale la pena spendere troppe parole sull’accaduto, l’irrisorietà dell’accusa di razzismo è evidente a chiunque abbia un’idea di ciò a cui ci si riferisce con questo termine: il valore fondamentale dell’uguaglianza, tra i popoli e le culture. Uguaglianza che non è stata in nessun modo attaccata dall’espressione della professoressa, per quanto sicuramente infelice e poco professionale.

Ma se vogliamo parlare di valori, parliamone: parliamo ad esempio della solidarietà. Solidarietà verso il prossimo, in questi tempi difficili in cui è importante rimanere uniti, comprendere le difficoltà che ci accomunano e non lasciare che queste ci dividano. E invece di reagire in nome di questo valore, di “mostrare l’altra guancia”, e magari invitare la professoressa a comprendere che anche gli studenti vivono lo stesso disagio. Ecco che si sceglie invece di opporsi, di fabbricare un’accusa che non sussiste, scomodando gli ideali che contraddistinguono il mondo moderno, per un’inezia.

Non credo sia questo il modo di tenere alti i suddetti ideali, anzi, questi atti sterili, o peggio vili, riescono soltanto a sminuirli. Tenerli alti non significa non dire mai negro, o inventare termini fantasiosi che non offendano la sensibilità di nessuno, significa fare propri i principi di solidarietà ed empatia, cercare la comprensione non il conflitto.

Nel caso non sia chiaro a qualcuno, non si vuole difendere il razzismo, l’esatto contrario; si vuole sottolineare che nel perpetrare quella che per alcuni è la buona battaglia, si rischia di tornare indietro, di soffocare la ragione, di censurare e avvizzire il confronto. Quello stesso confronto che dovrebbe essere il primo strumento di arricchimento in una società veramente cosmopolita.

Lorenzo E. Malossi


Una docente del Politecnico di Milano è stata recentemente accusata di razzismo da alcuni studenti per aver esclamato, durante una lezione: «Non sono il vostro schiavo negro»! È stato divulgato il ritaglio di registrazione che attesta l’episodio, troppo breve per consentire di dedurre alcunché del contesto a chiunque non ne sia già a conoscenza. Gli articoli che si trovano in merito, dal sapore vagamente scandalistico, si limitano a riportare quanto già resocontato dalla pagina Facebook “Studenti Indipendenti Politecnico”, che vado a consultare. Di voci fuori dal coro tra i commenti se ne trovano di sporadiche e si tratta per lo più di sfoghi bellicosi provenienti da profili di dubbia autenticità. Sempre più spesso mi capita di assistere alla pronuncia di accuse di razzismo poco convincenti, la cui opposizione proviene, se presente, da sparute minoranze, di solito politicamente schierate, la cui voce non si cura di rendersi credibile. L’osservazione di questo fenomeno motiva la seguente lettera, che rivolgo a chiunque vorrà leggerla, ma in particolare a chi, fra questi, fa parte della mia generazione.

Appartengo alla generazione di chi ha denunciato l’accaduto e la mia sensibilità non è stata urtata da un’imprecazione impersonale, ma dalla vanità con cui leggiamo la realtà. Non solo dichiariamo razzista una frase che secondo nessun criterio ragionevole potrebbe essere interpretata come tale, ma pensiamo che sia una buona idea infliggere uno stigma penalizzante e indelebile alla persona che l’ha pronunciata. Sorge spontaneo il dubbio che, con quell’esclamazione, la docente abbia solo fornito il pretesto che i suoi studenti aspettavano per avanzare una lamentela. In questo caso, mi limito ad osservare quanto sia vigliacco delegare alla faciloneria e alla crudeltà dell’opinione pubblica la soluzione di un nostro problema. Mi chiedo se la causa di questa agitazione non risieda soprattutto nella facilità con cui è stato possibile generarla. Il bullo ha bisogno di una ragione che lo spinga a prendersela con la sua vittima, o che nulla glielo impedisca è sufficiente? Quanto ci costa pubblicare un post di qualche riga in cui tacciamo qualcuno di razzismo? In pochi saranno disposti a mettere in discussione un’accusa simile, considerato che nessuno vuole subirla, e così diventa impossibile difendersi, anche quando l’accusa è infondata. Al di là dell’episodio particolare, un’osservazione banale: presumere di intraprendere una rivoluzione di pensiero, indipendentemente dall’entità, aggiustando il dizionario e applicando una censura sommaria al modo di esprimersi è fuorviante e preclude la partecipazione a qualsiasi discorso saliente. Mi chiedo se chi ritiene che invece sia rilevante sottolineare il genere di un Ministro o levare la “g” di bocca da chiunque dica negro sia in grado di discutere di discriminazione. Per queste ragioni, prendo le distanze dall’inconsistente ortodossia del linguaggio e del pensiero alla cui costruzione la mia generazione sembra aver deciso di dedicare il proprio tempo. Spero che anche altri, invece di farsi sconvolgere dall’esclamazione di un professore stanco, si lasceranno accarezzare dal dubbio che il vero ostacolo nell’immaginare una società migliore sia la gioventù distratta e suggestionabile di cui facciamo passivamente parte.

Giulia V. Pasquon